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Di fronte a una puntura di zecca, inizia spesso un incubo che può durare anni: la malattia di Lyme.




Non tanto per la ferita in sé, ma per ciò che potrebbe inoculare: un batterio subdolo, Borrelia burgdorferi, causa della malattia di Lyme. Un’infezione multisistemica, inizialmente curabile, che può però trasformarsi in una condanna a vita se non riconosciuta e trattata per tempo. Una malattia che divide governi, pazienti e comunità medica in una battaglia fatta di negazioni, sofferenze e contraddizioni profonde.


La malattia di Lyme è ben documentata scientificamente. Trasmessa dalla puntura di zecche infette, si manifesta inizialmente con un’eruzione cutanea (eritema migrante), febbre, dolori muscolari, ma può rapidamente interessare il sistema nervoso, le articolazioni, il cuore. Quando viene diagnosticata e curata precocemente con antibiotici, la prognosi è buona. Tuttavia, il vero nodo sta in ciò che accade quando la diagnosi arriva tardi.

Molti pazienti — non pochi — affermano di non aver ricevuto una diagnosi corretta per mesi o anni, finché i sintomi non sono diventati invalidanti: dolori articolari cronici, confusione mentale, fatica estrema, disturbi neurologici persistenti. È in questi casi che nasce il termine controverso di “Lyme cronico”, una condizione che, secondo i malati, non solo esiste, ma richiede trattamenti prolungati, spesso a base di antibiotici anche per mesi o anni.

E qui cominciano i conflitti.




Molti governi occidentali — Italia inclusa — tendono a non riconoscere ufficialmente la malattia di Lyme in forma cronica, almeno non secondo la definizione proposta da molte associazioni di pazienti. Le linee guida ufficiali (come quelle del CDC americano o dell’IDSA) parlano di "Post-Treatment Lyme Disease Syndrome" (PTLDS), una sindrome dai contorni incerti che non giustifica, secondo loro, un trattamento antibiotico prolungato.

Ma perché questa ritrosia istituzionale?

Una parte della risposta risiede nella mancanza di evidenze scientifiche robuste che dimostrino che la Borrelia sia ancora presente in forma attiva dopo i trattamenti standard. Secondo alcune ricerche, i sintomi persistenti sarebbero frutto di una reazione autoimmune, non di un’infezione attiva. In quest’ottica, trattare con antibiotici per mesi equivarrebbe a un rischio sanitario senza beneficio certo. Le istituzioni sanitarie, quindi, preferiscono un approccio prudente — per alcuni, troppo prudente.

C’è però anche una dimensione più politica: riconoscere ufficialmente il Lyme cronico implicherebbe ammettere una falla sistemica, ovvero che per anni (e tuttora) ci sono diagnosi sbagliate, terapie insufficienti, e pazienti lasciati senza cura. Vorrebbe dire finanziare nuovi studi, rivedere linee guida, formare i medici, e — non ultimo — accettare possibili responsabilità legali in alcuni casi. È una posizione scomoda, economicamente e politicamente.




Mentre le istituzioni si muovono con cautela, i pazienti — soprattutto quelli con forme avanzate e sintomi cronici — raccontano tutt’altra storia. Molti di loro riferiscono miglioramenti netti durante le cure antibiotiche prolungate e addirittura costanti, anche in monoterapia orale o, nei casi più gravi, con infusione endovenosa. Quando smettono il trattamento, i sintomi tornano. Quando lo riprendono, migliorano. Non sono pochi quelli che si spingono a dire: “Meglio vivere con gli antibiotici che sopravvivere senza”
E noi di Assud lo sappiamo benissimo per conoscenza diretta di ammalati di "Lyme cronico" da circa un decennio.


La medicina ufficiale risponde con scetticismo: il rischio di antibiotico-resistenza, effetti collaterali e danni epatici o intestinali viene ritenuto superiore ai benefici non provati. Inoltre, alcuni studi hanno mostrato che i miglioramenti riportati durante la terapia antibiotica potrebbero essere effetti placebo, oppure legati a fasi altalenanti della sintomatologia. Tuttavia, altri studi — spesso meno diffusi o fuori dai canali istituzionali — suggeriscono che la Borrelia possa sopravvivere in forme dormienti o nascoste nei tessuti (mediante del biofilm), non rilevabili facilmente nei test standard. Test, inoltre, molto costosi che spesso danno risultati negativi. Bisogna ripeterli piùe più volte, con un notevole esborso di denaro interamente a carico dell'ammalato o della famiglia, per ottenere delle evidenze. E quando ci sono le evidenze capita che il medico non ne tenga conto.

Il punto è: non si sa abbastanza. E finché la scienza non fornisce una risposta definitiva, il muro tra pazienti e autorità resta alto. La ricerca su questa odiosa malattia è aumentata ma si è tanto indietro. 
Si studiano nuovi test diagnostici poiché "Elisa" e "Western Blot" danno spesso falsi negativi per cui sono poco affidabili.
Altre ricerche sono relative alla "sindrome post-Lyme" ossia il caso in cui i pazienti in assenza di batterio continuano ad avere i sintomi della malattia.
Altra ricerca riguarda le forme persistenti di Borrelia (come le forme “cistiche” o biofilm), che potrebbero spiegare i sintomi a lungo termine: il batterio, in pratica, si risveglierebbe e si ripresenterebbe dando all'ammalato i sintomi della malattia.


Non va dimenticato, infatti, un altro aspetto cruciale: il ruolo dei medici di base e specialisti, spesso impreparati a riconoscere la malattia di Lyme (che non è facilissima da diagnosticare specie in assenza di eritema migrante). Piuttosto raro che un medico pensi subito alla Borrelia di fronte a sintomi vaghi e sistemici. L’assenza dell’eritema migrante (presente solo nel 60-70% dei casi), test sierologici incerti, sintomi neurologici o articolari generici: tutto rende la diagnosi difficile.

In più, la presenza di coinfezioni (come Bartonella, Babesia, Ehrlichia) può complicare il quadro clinico e alterare le risposte ai trattamenti. Queste infezioni non sempre vengono ricercate nei test di routine, e spesso i pazienti vengono liquidati con etichette vaghe come “sindrome da fatica cronica” o “fibromialgia”, senza indagare oltre.

Molti malati finiscono così in una terra di nessuno: troppo malati per essere ignorati, troppo “poco chiari” per essere presi in carico seriamente.

La malattia di Lyme rappresenta oggi una delle frontiere più spinose della medicina contemporanea: un terreno dove scienza, politica, esperienza soggettiva e burocrazia si scontrano. I pazienti chiedono ascolto e flessibilità, i governi invocano evidenza e cautela, i medici oscillano tra incertezza e paura di uscire dai protocolli.

Nel frattempo, chi vive con il Lyme cronico continua a cercare risposte che la medicina ufficiale spesso non è ancora pronta a dare.

E forse è proprio qui il nodo più inquietante: quando il sapere scientifico non riesce ancora a spiegare tutto, chi decide che cosa è reale e che cosa non lo è? In base a cosa se non si ascoltano neppure gli ammalati e non si indagano le cause del loro malessere. 

Staff




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