Negli ultimi decenni la Cina ha stupito il mondo con una crescita economica vertiginosa, passando da “fabbrica low-cost del pianeta” a potenza industriale e tecnologica. Ma dietro i numeri impressionanti del PIL c’è un modello di sviluppo molto particolare, costruito dal Partito Comunista Cinese (PCC) con una regola non scritta ma ferrea: la stabilità sociale viene prima di tutto.
In un Paese con oltre 1,4 miliardi di abitanti, il rischio di una disoccupazione di massa non è una semplice statistica: è una possibile miccia per tensioni sociali e politiche. Il PCC lo sa bene, e per questo preferisce mantenere in vita imprese strategiche piuttosto che lasciarle fallire. Anche quando un’azienda è in perdita cronica, il governo può concedere sussidi diretti, prestiti agevolati o riduzioni fiscali pur di evitare licenziamenti su larga scala. La logica è chiara: un’azienda in perdita è un problema economico; un’intera città di operai senza lavoro è un problema politico.
Questa impostazione si traduce in una sorta di “capitalismo di Stato a prova di crisi sociale”, in cui il profitto immediato conta meno della capacità di mantenere occupazione e capacità produttiva. Ma c’è un costo: per restare competitiva sui mercati globali, la Cina mantiene i salari relativamente bassi rispetto agli standard occidentali, il che limita il potere d’acquisto interno. Il risultato è un mercato domestico ancora fragile, incapace di assorbire tutta la produzione industriale del Paese.
Da qui la seconda gamba della strategia che ha del "geniale": spingere sull’export. Le imprese cinesi sono incoraggiate — direttamente o indirettamente — a conquistare mercati esteri anche a costo di vendere sottocosto. In termini puramente aziendali può sembrare insostenibile, ma nell’ottica statale è un investimento: occupare spazi, fidelizzare consumatori stranieri e indebolire la concorrenza.
In questo scenario potremmo far riferimento al caso di Temu, piattaforma di e-commerce internazionale lanciata dal gruppo PDD Holdings, già proprietario di Pinduoduo. Temu ha conquistato rapidamente una fetta consistente del mercato in Nord America ed Europa grazie a un’offerta sterminata di prodotti e prezzi talmente bassi da sembrare incredibili. Prodotti anche di qualità venduti a prezzi stracciati.
Il modello è chiaro: margini unitari ridottissimi, altissimo volume di vendite, spedizioni internazionali a costi sorprendentemente bassi (in parte agevolati da vecchi accordi postali internazionali e da sussidi alla logistica). Molti dei prodotti venduti arrivano direttamente da fabbriche cinesi che, senza un canale di export così aggressivo, non avrebbero sbocchi sufficienti.
Non è necessario che il governo cinese finanzi direttamente Temu per renderla parte della strategia nazionale. L’azienda opera dentro un ecosistema favorevole, frutto di politiche industriali e commerciali deliberate: infrastrutture portuali e aeroportuali sviluppate con fondi pubblici, catene logistiche sussidiate, accesso privilegiato al credito e un quadro normativo che premia l’export rispetto al consumo interno.
Il PCC considera l’economia un’estensione della politica (a differenza dell'Europa in cui la Finanza ha preso il posto della politica mostrando disinteresse per i problemi sociali se non quelli funzionali ai propri affari).
La sopravvivenza di un’azienda strategica non è solo una questione di profitti e perdite: è una garanzia di stabilità sociale e, quindi, di stabilità politica. Da qui la tolleranza verso modelli di business che in un’economia di mercato pura verrebbero giudicati insostenibili.
Il “sacrificio” di vendere sottocosto viene compensato dalla prospettiva di consolidare il peso della Cina nelle catene globali di fornitura, influenzare le regole del commercio internazionale e creare dipendenza nei mercati esteri da beni e servizi cinesi.
Questa strategia, però, comporta dei rischi. Se da un lato garantisce occupazione e penetrazione dei mercati esteri, dall’altro espone il Paese a possibili contraccolpi: guerre commerciali, dazi, restrizioni tecnologiche e crescente diffidenza verso le piattaforme cinesi. Inoltre, mantenere salari bassi per restare competitivi frena la crescita del mercato interno, impedendo alla Cina di emanciparsi completamente dalla dipendenza dalle esportazioni.
Negli ultimi anni Pechino ha parlato di una nuova strategia della “doppia circolazione”: rafforzare i consumi interni senza rinunciare all’export. Ma tradurre questa visione in realtà richiede riforme profonde — dalla redistribuzione del reddito a un welfare più esteso — e il processo è lento.
Per ora la strategia del PCC unisce pragmatismo e ambizione geopolitica, e che continua a sfidare le logiche del capitalismo tradizionale. Per quanto tempo sia sostenibile si vedrà.
Staff

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